Un ricordo di Aly Baba Faye

"È tempo di organizzare la società plurale"

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Aly Baba Faye Sociologo
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ALY BABA FAYE, sociologo e attivista per i diritti di cittadinanza e di civiltà, ci ha lasciato pochi giorni fa. Domani 12 settembre alle ore 9:00 presso la Grande Moschea di Roma, in viale della Moschea 85. si terrà la cerimonia di commemorazione di questa luminosa figura di intellettuale militante, che la rivista Animazione Sociale ha avuto il piacere e l'onore di ospitare sia nelle sue pagine che nei suoi convegni.

Chi era Aly Baba Faye?

Nato nel 1961 in  Senegal, arriva in Italia nel 1984 come studente. Dal 1986 inizia il suo impegno a favore dei diritti degli immigrati e per il dialogo tra diversi e la convivenza civile. Sono gli anni in cui l’Italia diventa un paese di immigrazione. In qualità di segretario nazionale del CASI (Coordinamento Associazioni Senegalesi in Italia) è tra i promotori della prima grande manifestazione nazionale contro il razzismo a Roma il 7 ottobre 1989 dopo l’assassinio di Jerry Essan Masslo a Villa Literno.

Lavora per l'approvazione della prima legge sull'immigrazione, la Legge Martelli (la 39/90), nel 1990 viene chiamato da Bruno Trentin in Cgil, primo immigrato a entrare nel direttivo nazionale. Prosegue negli anni la sua attività sindacale, politica e di ricerca sociale. Figura di riferimento per la comunità senegalese in Italia, lo è stato anche per Animazione Sociale (chi c'era ricorderà il suo intervento al Convegno "L'anima politica del lavoro sociale", 16-18 dicembre 2021), per il Gruppo Abele e per tante realtà di terzo settore con cui ha collaborato in questi anni. 

Lo ricordiamo con l'intervista uscita nel nr. 356/2022 della rivista, raccolta poi nel libro L'ASSOCIARSI DI MONDI MIGRANTI. Radicarsi in città animando mutualità di quartiere (a cura di Lucia Bianco e Viola Poggi, edito lo scorso anno nella collana "Le Matite di Animazione Sociale"). E' il nostro modo per salutarlo, per ringraziarlo e per far sì che le sue idee continuino a vivere.

Buon viaggio, generoso amico.

 

la città di tutti
È TEMPO DI ORGANIZZARE LA SOCIETÀ PLURALE

Fare società con i mondi migranti
intervista a Ali Baba Faye a cura di Franco Floris

>> Da sempre su Animazione Sociale siamo attenti a comprendere quanto succede all’interno e intorno ai mondi migranti e ad animare il lavoro in queste aree in una logica di giustizia e promozione dei diritti.

Fermo restando il principio di accoglienza, negli anni ci siamo sempre più interrogati sui processi di interazione/integrazione delle comunità straniere nelle comunità locali. La domanda – dall'iniziale «come accogliere?» – è diventata: a quali condizioni territoriali i mondi migranti possono sviluppare le loro capacità (sociali, lavorative, culturali) e mettersi in gioco nei diversi habitat per produrre beni comuni che permettano a tutti di attraversare la «tempesta perfetta» di cui parla Zygmunt Bauman?

Tutto ciò muovendo da una consapevolezza: che oggi tutti abbiamo bisogno di tutti e tutti abbiamo bisogno di apprendere a farci cittadini di mondi plurali.

Per molti versi siamo alla ricerca di un paradigma per pensare l'intreccio tra diversi che vada oltre la sola accoglienza e che sia maggiormente generativo a livello culturale e politico, ma anche sociale ed educativo. Ne abbiamo parlato con Ali Baba Faye, senegalese, in Italia dal 1984, in passato sindacalista (primo immigrato a entrare nel direttivo nazionale della Cgil nel 1990), oggi ricercatore sociale e attivista nel mondo dell'integrazione, da sempre «distante» da un’accoglienza passivizzante e a favore di un cambio di paradigma nel lavoro con i mondi migranti.

Chi enfatizza l'accoglienza e chi la denigra

Siamo bloccati in un duplice linguaggio: quello di chi enfatizza in modo emotivo l’accoglienza dei mondi migranti e quello di chi, in modo non meno emotivo, la rifiuta. Entrambi risultano infecondi rispetto alla drammaticità del fenomeno. Come intravedere un «filo d’Arianna» per uscire dal labirinto?

Accoglienza è una parola densa di promesse, ma forse non è il paradigma su cui far leva, se sembra che accogliendo ci facciamo carico di un peso più grande di quello che possiamo sopportare. Certo dovrebbe esserci accoglienza, soprattutto per i richiedenti asilo. Ma questo approccio è diventato non poche volte la prigione del dibattito pubblico. Non si è ricercato, tanto meno esplorato, un paradigma nuovo e diverso.

Negli ultimi anni, in Italia, l’idea che come immigrato non sei accettato, che anzi puoi camminare per strada ed essere accoltellato, è entrata nella narrazione collettiva e spaventa. Molti immigrati bengalesi, che avevano fatto il ricongiungimento familiare, ora mandano mogli e figli a Londra e appena possono si stabiliscono anch’essi in Inghilterra, pur avendo un passaporto italiano. Da noi come immigrato non puoi investire, questo è il dato generale. C’è stato un inquinamento sofisticato nella vita pubblica a partire da una narrazione violenta. E dopo l’11 settembre, se sei musulmano, lasciamo perdere.

Detto questo, il dinamismo delle comunità straniere in diversi campi della cultura e della vita sociale c’è, in forma più o meno vivace. Ma le comunità si chiudono in sé, o pensano al rientro nel Paese d’origine, se non si riconosce loro la possibilità di fare qui una scelta semi-definitiva, se non definitiva. Sarebbe confortante per chi è giovane poter dire: «Questo è il mio Paese perché ci sono nato, anche se mio papà è nato in Senegal». Un cambio di paradigma – oltre l’enfasi moralistica o emotiva – è oggi fondamentale.

Miserie della narrazione politica

Come cambiare paradigma, sapendo che non mancano i segnali lanciati da esperienze associative di comunità straniere. Penso alle esperienze a cui come rivista abbiamo dato spazio prima della stessa pandemia (si veda l’articolo L’associarsi in quartiere dei mondi migranti. Un «manifesto» per la città di tutti, nr. 348, 2022)...

Il danno l’ha fatto la narrazione politica nei talk show e sui social che ha portato il Paese a una perdita di orizzonte. Avendo conosciuto l’immigrazione tempo dopo altri Paesi coloniali, l’Italia avrebbe potuto orientarsi a un modello equilibrato che non si riducesse a un multiculturalismo, se così si può dire, tipo «insalata mista», ma neppure a un assimilazionismo alla francese, dove si fa finta di essere tutti francesi.

L’immigrazione è una questione sociale, economica e politica, ma prima ancora culturale, che mi sta a cuore da più di trent’anni, con un impegno passato attraverso il sindacato e la politica. Ho dedicato la vita a questa sfida, che dovrebbe oggi portarci a concepire nuovi paradigmi e nuove visioni, nuovi modi di agire e nuove pratiche sociali.

Hai citato il protagonismo dei movimenti associativi. Non poteva che essere così. Da parte mia durante il lockdown ho attivato una piattaforma di riflessione per alimentare il dibattito sulle migrazioni ponendo al centro l’immaginario della «diaspora» , che rimanda a un continuo e fertile andirivieni tra Paese di nascita e Paese di libera scelta.

Finora la piattaforma ha ospitato un rapporto sui senegalesi facendo leva su un campione rappresentativo della popolazione presente in Italia. È la prima volta di uno studio intra-comunitario con una rilettura del fenomeno migratorio con gli occhi degli stessi immigrati. L’esito è che molti dati si sono scostati da quelli in circolazione. C’è bisogno di procedere in questa direzione per esplorare parole, attese, disponibilità e intraprendenze dei mondi migranti.

Nel mondo ci si sposta da turisti o migranti

Su che cosa posare lo sguardo?

Durante la pandemia, un contesto certo particolare ma che ha fatto intravedere le profonde dinamiche in atto da tempo, ho riflettuto a lungo alla luce di due principi: il tempo e lo spazio sociale. Le categorie di tempo e spazio sono illuminanti perché ci guidano nel comprendere quel che vivevamo prima della pandemia, da quando per oltre due o tre decenni, a partire dagli anni ’80, si è cominciato a parlare di globalizzazione o, se preferiamo il termine francese, di mondializzazione, un processo di enorme portata basato su tre fenomeni intrecciati tra loro.

L’avvento di un mercato globale anzitutto, in cui si impone la libera circolazione delle merci e degli scambi. Con la costruzione dell’Organizzazione mondiale del commercio si diventa tutti più «aperti» , mentre i dazi diventano residuali nell’economia internazionale. Sono emersi velocemente, tuttavia, anche nodi pesanti di governance dell’economia mondiale, che pesano in forme inedite sulle scelte dei singoli governi.

Accanto all’avvento del mercato globale abbiamo assistito, negli stessi anni, all’intensificarsi del fenomeno della «mobilità». Parlo di mobilità e non di immigrazione, perché è un concetto di più vasta portata e maggiormente comprensivo di altre forme di spostamento di popolazioni, compreso – ahimè – il turismo mondiale. Quando in quegli anni intervenivo nei luoghi di formazione, segnalavo un dato: il numero di chilometri percorsi pro capite dagli anni ’80 in poi. Prima di allora, una persona viveva nell’arco di alcuni chilometri quadrati. Con la mondializzazione le possibilità di viaggiare sono aumentate a dismisura. Anche se non per tutti, il turismo è diventato a portata di mano. Prima degli anni ’80, le persone che avevano visitato più di dieci Paesi erano una minoranza, ora gli spostamenti tra nazioni sono di massa. Questo rientra nel più vasto fenomeno di quella che identifico come rivoluzione della mobilità. Accanto al turismo e alla possibilità di viaggiare è esploso il fenomeno della migrazione.

Gli esseri umani si sono sempre mossi

Un’immigrazione dunque da rileggere alla luce della diffusa disponibilità di mezzi per uscire dal proprio habitat e abitare altri mondi culturali e politici...

Se si vuol fare un excursus storico, si deve partire dalla considerazione antropologica, un po’ provocatoria ma reale, che la sedentarizzazione è una scelta acquisita nel tempo. La propensione naturale è la mobilità, Tant’è che le prime forme di società organizzate erano gruppi nomadi che seguivano i cicli delle stagioni per sopravvivere con la raccolta e la caccia.

Solo con la tecnologia agricola si modificano i modi di vivere. Si pensi alla capacità di allevare animali e di coltivare, raccogliere e conservare derrate e frutti. Questo ha permesso ai gruppi umani di scegliere luoghi diversificati dove abitare. Siamo al passaggio alla sedentarizzazione, con la nascita di società di tipo agricolo che hanno cominciato a consolidare un rapporto popolazione-territorio più strutturato e fisso.

Una seconda grande tappa nell’evoluzione è stata la rivoluzione industriale, con la macchina a vapore che ha portato a un susseguirsi di rivoluzioni tecnologiche che trasformano gli scenari del vivere collettivo. Per tornare all’oggetto di questa riflessione, lo sviluppo dell’industria ha alimentato un poderoso processo migratorio, denso di contraddizioni e ingiustizie. Si pensi all’esodo del mondo rurale nelle città provocato dall’industrializzazione. Attorno alle fabbriche sono andate ad abitare le famiglie degli operai e qui è nato il travolgente processo dell’urbanizzazione, con persone e gruppi che abbandonavano le campagne e dovevano reinventare il come vivere, spesso con molti drammi.

Si arriva nei nostri giorni a una terza fase: la mondializzazione o globalizzazione. Il mondo prende forma al di là dei poteri degli Stati e al di là dei tre fattori strutturanti su cui si basava la società industriale: una popolazione omogenea culturalmente, un territorio delimitato con frontiere certe, un ordinamento sovrano che lo governa.

Il ritrovamento nel profondo della famiglia umana

Tutto questo offre possibilità inedite a molti, ma infligge costi dolorosi ad altri. I costi sono mal distribuiti tra i diversi strati di popolazione come tra le nazioni e i continenti. Da dove ripartire?

Direi dalla consapevolezza che si deve e si può mettere al centro un modello di sviluppo «altro» basato sul ritrovamento della famiglia umana, come stiamo intuendo da più parti in questi anni («siamo tutti sulla stessa barca» ). Cosa non facile perché, come diceva Massimo d’Azeglio nel 1861, «L’Italia è fatta, c’è da fare gli italiani». Parafrasando, fatta la globalizzazione, ora dobbiamo formarci come «cittadini globali».

Il nodo è che le istituzioni della global governance non hanno un mandato partecipativo dal basso, anche se pesano non poco sui singoli territori. Sono tecnocrazie che si sono arrogate, attraverso meccanismi di reciproco sostegno tra organizzazioni planetarie, il diritto di imporre una nuova dottrina. Dottrina incentrata sul capitalismo che costringe gli Stati a fare i conti con questa realtà, a meno che uno Stato non voglia vivere in autarchia... Cosa però ormai impossibile, perché si è inseriti in un sistema di vita ed economico che è cosmo-politico: si possono produrre macchine a Singapore utilizzando materie prime africane e vendendo il prodotto finale in Italia.

A ben guardare, però, questo è uno straordinario fenomeno, che sta appunto sospingendo verso un «ritrovamento della famiglia umana» e della stessa madre Terra, a prescindere dalle identità specifiche. È un’intuizione fondamentale, una lettura che va tenuta in grande considerazione, perché da lì si può cominciare a ragionare sul da farsi.

La realtà promettente è ormai il mescolamento tra mondi

Dentro l’orizzonte generale che hai tratteggiato, come affrontare il «particolare» del contesto italiano di fronte all’immigrazione, tenendo conto delle dinamiche macro, ma anche del fatto che le paure sono molte e le risorse mal distribuite?

Intanto direi che è distruttivo per tutti attardarci a discutere senza fine di identità e differenza, senza considerare come elemento paradigmatico che, comunque, stiamo parlando di un’unica identità umana. Certo, siamo musulmani e cristiani, siamo neri, cinesi, bianchi, ecc., però sostanzialmente condividiamo lo stesso spazio-mondo e da questo dobbiamo partire per apprendere a convivere in pace.

La famiglia naturale è quella umana. La realtà promettente è ormai il mescolamento tra mondi diversi. In qualunque città, su qualunque autobus, si incontrano persone di origine asiatica o africana, si sentono lingue diverse, evento raro anche solo quarant’anni fa. Fino agli anni ’70 c’erano persone in Italia che non avevano mai visto una persona di colore.

Poi sì, è vero, il cambiamento innesca sempre ansie e paure che vengono utilizzate politicamente per la costruzione del consenso e questo ostacola o ritarda l’investimento collettivo su processi includenti. Ma le migrazioni, come gli studi sociologici insegnano, rispondono a una logica umanissima: si lascia il proprio ambiente per andare dove si spera di trovare condizioni migliori di lavoro e di reddito, ma anche maggiore libertà di esprimersi e «contare» nelle scelte. Lo spostamento è dettato da questi bisogni.

Ultimamente stiamo vedendo anche una diversa migrazione, soprattutto di pensionati occidentali che scelgono di comprare casa nei Paesi africani dove si può vivere dignitosamente con una pensione. A ben guardare, si tratta di una migrazione comunque circolare, in cui le persone lasciano il posto dove sono nate, ma rimangono attivi dei punti di contatto.

È in questa logica circolare, più che in termini di comunità straniere, che oggi si tende a ragionare di immigrati. Si utilizza il linguaggio della «diaspora» proprio perché tutti mantengono un rapporto con i Paesi di origine, investono sulle economie locali, partecipano con internet al battesimo del figlio, al matrimonio della cugina. Si può vedere molte scene di vita in diretta e sembra di essere lì, sapendo chi c’è, salutando, ringraziando. Stiamo vivendo tutti una contrazione dello spazio, come se lo spazio finisse per non esistere. È una delle chance interessanti della tecnologia.

La vicenda del tempo è più complessa, ma comunque tutto è diventato più veloce. Da studente a Perugia discorrevo quattro volte l’anno con mia madre con delle lettere e una volta l’anno al telefono, alla vigilia di Natale. Per anni siamo andati avanti così. Oggi, con tutte le tecnologie a disposizione, sei assente fisicamente ma sei presente virtualmente. Almeno per le decisioni minute, è tutto molto più semplice.

Un Paese cosmopolita senza una vision cosmopolita

Questo succede all’interno dei singoli mondi migranti e dei gruppi familiari, ma nei rapporti con le popolazioni locali spesso succede ben altro, anche perché queste sono prese da ansie e difficoltà...

Certo, ma intanto molte dinamiche sono cambiate e non si può procedere se non ci si muove, a livello di pensiero e di azione, dentro la circolarità del paradigma che si sta delineando.

L’Italia è un Paese di emigrazione, fin da quando molti cittadini andavano in America o in altri Paesi europei a cercare fortuna. Ci sono state anche migrazioni di ritorno. Nel Veneto, per esempio, si è creato un forte dinamismo nello sviluppo produttivo, soprattutto dopo il 1985, quando con gli accordi di Schengen si è decisa la libera circolazione delle persone e delle merci.

In fondo Schengen è un esito dell’intensificarsi dei processi di circolarità nello spazio e nel tempo. Processi, fra l’altro, che hanno offerto l’occasione all’Italia di rivedere quello che era ancora gestito dal Testo unico di pubblica sicurezza del 1922 di Mussolini che stabiliva la «preferenza nazionale» per l’accesso al mercato del lavoro.

Con Schengen la preferenza è stata abolita e gli stranieri hanno cominciato ad avere il diritto al lavoro. La prima legge in proposito risale al 1986. Stabilendo parità nei principi di trattamento nel lavoro, nel welfare, nella sanità, l’Italia diventa un Paese «appetibile».

E da terra di emigrazione diventa Paese di immigrazione. Da cosa era data l’appetibilità e che risposta si è data nel tempo alle sfide emergenti?

L’Italia è diventata appetibile negli anni ’80 quando i tassi di crescita erano alti, le famiglie cominciavano ad acquistare le seconde case, la disoccupazione era ai minimi e, giusto perché certi lavori gli italiani non li volevano fare, c’era bisogno di manodopera straniera per mantenere quei tassi di crescita.

Si è quindi cominciato a programmare i flussi, soprattutto con la legge Martelli del ’90 quando, sulla base del principio di «convenienza» del Paese, si sono allestite delle facilities per far entrare persone in modo legale.

A un tratto abbiamo avuto tutto il mondo in casa. I Paesi del mondo sono circa 190, oggi in Italia trovi persone che provengono da 110/130 nazioni, con comunità più o meno grandi, più o meno organizzate, ognuna con le proprie specificità e pratiche culturali.

Siamo ormai una realtà cosmopolita, eppure manca una vision cosmopolita. Anche le migliori pratiche sociali sperimentate negli anni hanno avuto il vizio di rifarsi a una lettura italiana del fenomeno. Si dice «siamo a casa nostra» , invece di pensare «siamo al mondo». Si ripete «qui siamo in Italia e voi che siete venuti vi dovete adattare». Insomma, resiste il paradigma dell’adattamento. Questo porta a scelte che non hanno di mira il futuro del Paese, ma convenienze di corto respiro che alimentano le contraddizioni di scelte mai portate a compimento.

Non si rinunci ad apprendere dalle esperienze

Puoi fare qualche esempio?

Si pensi alla mediazione culturale, un’invenzione che non mi pare esista in altri Paesi. La visione sottostante risponde al principio di adattamento: «Vieni e ti faccio diventare un po’ italiano». Quando si «entra» in una nuova realtà sociale, ci si deve adattare, d’accordo. Ma manca la parte relativa al mondo italiano che deve sviluppare una visione aperta al mondo nel suo insieme.

Tutto questo rende meno efficace la moltitudine di pratiche di mediazione culturale finanziate dagli enti locali, con innumerevoli progetti copia-incolla. Ci sono fondi dedicati, si è creata una professione, si sono diffuse a macchia d’olio iniziative di formazione per mediatori culturali, ne sono stati formati non so quante migliaia. Ma a oggi essi non hanno ancora uno status giuridico e vengono assunti in progetti senza una vision culturale e politica trasformativa e arricchente del Paese.

Se si esce fuori dalla sopravvivenza minuta, come immigrati ci sarebbe bisogno di finanziamenti che permettano di dedicarsi a iniziative utili alla comunità, di misurarsi con iniziative di inclusione attiva, di entrare in un mondo di dialogo e di partecipazione come cittadini. Invece tutto si riduce a un monologo sordo, spesso irritante.

Che cosa è venuto a mancare in questi anni per perseguire «un guadagno per tutti» ?

Direi che è mancata la capacità di valorizzare in termini sistemici le sperimentazioni efficaci in cui le comunità straniere hanno potuto percepirsi importanti per dare un futuro diverso a città e paesi. Anche dove alcuni esperimenti sono di valore per i territori, il Paese non è stato in grado di apprendere, dunque di trasformare il suo approccio alla convivenza e al modello di sviluppo.

Nel silenzio totale si fanno per fortuna iniziative egregie a livello di mutualità e solidarietà. Durante la pandemia in molte città e paesi si è abbozzata, a volte consolidata, una sorta di «welfare dal basso» che ha visto protagoniste anche le comunità di stranieri. Penso a sottoscrizioni diffuse per la «spesa solidale» o a raccolte fondi per consentire il rimpatrio di salme.

Tante sono le iniziative di socialità ai margini di una società dominante che non permette che queste emergano e siano riconosciute. Invece, con un po’ più di curiosità, immaginazione e rispetto, in altre parole con una maggiore disponibilità mentale ed emotiva, si potrebbe cominciare a valutare e valorizzare le molte esperienze significative e implementare l’«adesione» di molte comunità migranti a logiche di convivenza, finalmente cittadini a pieno titolo di un grande Paese come l’Italia.

La sfida è fare assieme società

Verso dove incamminarsi e come aprirsi la strada?

La vera sfida, al di là delle differenze religiose o culturali, è lavorare insieme a «fare società». Oggi non si può partire se non dal prendere atto che la società non è più omogenea. Il multiculturalismo è un fatto reale e nel fare società si deve tener conto dei tratti di diversità esistenti. Ci sono filoni molto promettenti di sperimentazione, ma anche di ricerca teorica, rispetto alle modalità di intreccio tra le diversità. C’è da inventare strategie credibili, di lungo respiro, costruendo appunto sulle sperimentazioni che non mancano.

Comprensibilmente il Paese ospite detta delle regole, non è che debba cambiare se stesso per adattarsi. Però ha da trovare idee e mezzi adeguati per organizzare forme plurali di apertura e dialogo e, più da vicino, per valorizzare gli apporti delle comunità e delle culture. Queste possono offrire qualcosa di «conveniente» per l’insieme della società.

Fare società comporta, dal mio punto di vista, convocare più di ieri due campi di pensiero e di azione fondamentali.

Il primo è quello della cultura, del «fare pensiero» dentro i problemi e i desideri di oggi, per poi entrare nelle dinamiche in atto tra mondi diversi e l’evolversi discontinuo e imprevedibile delle relazioni tra gruppi sociali, dotandosi anzitutto di lenti attendibili per intravedere gli aspetti critici e quelli generativi, prevenire o contrastare l’insorgere di gravi traumi sociali, contribuire allo sviluppo di nuovi «programmi politici» alla luce di vision della società tese al futuro planetario qui e ora.

L’altro campo è la politica, i luoghi plurali e stratificati del legiferare democratico, dunque partecipato. La politica, interagendo di continuo con la cultura, ha da affrontare i problemi emergenti, ma anche farsi aperta al nascere stimolante di nuovi organismi e soggetti sociali che stanno apprendendo, spesso prima di altri, a muoversi dentro la crisi o meglio a entrare nel cambiamento.

Purtroppo siamo dentro una politica che non riesce a delineare una visione convincente e sufficientemente pragmatica di accoglienza e integrazione di tutti come cittadini. Quando si parla di governance della diversità ci sono da mettere in campo strategie, programmi, modalità di intervento ormai collaudati in grado di reinventare, passo dopo passo, la coesione sociale, la comunità territoriale, il fare società nei territori.

Invece di rassegnarsi a delle enclave etniche insensate e ingovernabili, si tratta di immaginare da un punto vista culturale e di organizzare da punto di vista politico l’idea stessa di «società plurale» , entro cui vivono diversità in grado di riconoscersi un substrato comune.

Purtroppo le politiche abitative non aiutano l’interazione fra mondi sociali e culturali. Le reti del mercato hanno spinto verso le enclave interi gruppi di lavoratori stranieri con livelli di retribuzione bassa, con inserimenti occupazionali problematici, fino a rassegnarsi a forme «chiuse» di vita nei territori.

Le politiche abitative sono dominate dalla legge del mercato, di conseguenza se si guadagna meno, anche a parità di lavoro, è chiaro che si va a cercare casa dove è possibile permetterselo. Da questo nascono le concentrazioni come le banlieue parigine, i mondi a parte. Questo è un fallimento della gestione delle politiche per la casa. Condividere il territorio, evitare concentrazioni problematiche: questo andrebbe fatto. Ben sapendo che non si abita solo una casa, ma anzitutto un territorio, un quartiere.

Un paese che non fa più figli può fare a meno degli stranieri?

Solleciti un cambiamento complesso che pone al centro questioni impegnative come le relazioni sociali, la vivibilità dei territori, l’organizzazione di «giusti» mercati di lavoro, l’attivazione di nuove forme partecipative di governo dei problemi...

Il cambio di paradigma che ho finora esplorato è in quanto ora hai detto. Realizzarlo suppone una diffusa tensione culturale e politica che fatica ad affiorare, malgrado gli esperimenti in atto nel Paese. In questi esperimenti nascono e rinascono di continuo apprendimenti teorici e prospettici che vanno valorizzati. La produzione di conoscenza è un capitale irrinunciabile.

Oggi il capitale sociale dei territori non è valorizzato a sufficienza. E del capitale sociale fanno parte i saperi e le capacità non solo degli «indigeni» , ma anche degli stranieri che possono offrire un «di più» in termini di innovazione culturale ed economica, con attività in grado di rafforzare i territori e rianimare il Paese. Basti dire che nell’agricoltura, ma non solo, senza l’apporto dei mondi migranti l’economia del Paese si blocca.

Tutto porterebbe a scelte politiche animate non da un’emotiva benevolenza volta a fare «concessioni» agli stranieri, ma dalla convinzione che esse servono all’Italia tutta, che altrimenti non potrà mantenere il livello di benessere e crescita economica raggiunto. Da questo punto di vista è emblematica l’incultura di una certa classe politica, per la quale ai figli delle seconde generazioni, che ormai parlano in dialetto ma sono un po’ «colorati», tocca aspettare i 18 anni per essere riconosciuti: riconoscimento che lo Stato non fa come diritto, ma come concessione.

Eppure gli studi internazionali di previsione economica inseriscono ormai il dato della popolazione come un capitale decisivo – basti vedere i grandi Paesi emergenti, come Cina, India, Brasile. Ormai si ragiona secondo il «dividendo demografico». In Italia, Paese che non fa più figli e ha un’età media molto alta, si prevede che la popolazione diminuirà di circa 5 milioni di abitanti nel 2050 e di 12 milioni nel 2070. Se non compenseremo la perdita con l’arrivo di nuove forze, partendo dal riconoscere la cittadinanza a chi già nasce qua, saremo destinati a un declino inevitabile.

Un «futuro altro» da cercare insieme

Il nodo è guardare insieme al futuro. È il futuro il nodo, non si riesce a vedere il futuro in questo Paese...

Il Paese è in declino, non solo demografico, con effetti pesanti sull’economia e sulla produttività. Mancano molte figure professionali. Questo per dire che il futuro lo si inventa con la semina fin da oggi. Ciò che seminiamo ora è quel che raccoglieremo domani.

In altre parole, è decisivo valorizzare gli spazi di sperimentazione sociale e culturale, innovare attraverso le reti partecipative, rafforzare le strategie di sviluppo di capitale sociale all’interno dei contesti territoriali e lavorativi: questa è l’imponente sfida che non viene assunta socialmente e politicamente, perché ancora si guarda a quei mondi con l’idea fissa del «prima gli italiani».

Bisogna uscire da questo arroccamento miope e metterci insieme a inventare un futuro di dignità per tutti. Con una politica intelligente verso gli stranieri, di valorizzazione delle loro energie che alimenti e moltiplichi le «motivazioni» a esserci criticamente e attivamente – energie che possono emergere solo dal sentirsi qui e ora a casa propria. E invece spesso prevale la sindrome dell’ospite che cerca di non toccare neppure i mobili.

Che dire, se non che fermarsi all’ospitalità non è un grande investimento, visto il potenziale che abbiamo, anche di intelligenze a tutti i livelli, dal mondo del calcio alle università ai centri di ricerca? Reinventare il futuro partendo non dagli stranieri, ma dal dato non modificabile della compresenza tra italiani e stranieri. E dunque si tratta di lavorare con lucidità creativa per tessere nuove forme di legame sociale.

La società attuale sarà pure liquida, come diceva Bauman, ma ci sono anche esperimenti promettenti e si stanno elaborando fondamenti solidi da mettere alla base della convivenza, come lo stesso Bauman ripeteva. Non mancano dinamiche partecipative, scambi rigenerativi fra mondi, disponibilità impensabili a mettersi in gioco da parte di persone, gruppi, reti sociali a livello di mutualità aperte a vivere lo stesso territorio, a sentirsi cittadini dello stesso Paese.

 

Pubblicato su Animazione Sociale n. 356/2022


Allegati

Intervista Ali Baba Faye [PDF]

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