Storie di cooperative e professioniste/i

La mia cooperativa è "al dunque". E io sono confusa

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Abbiamo chiesto a lettrici e lettori di inviare storie che raccontino la loro esperienza professionale e lavorativa in cooperativa sociale. Ringraziamo chi ha trovato il tempo e la forza di scrivere. Sono storie personali, ma diventano oggi storie politiche, che riguardano tutte e tutti e la società che vogliamo contribuire a costruire. Sono storie che costituiscono documenti preziosi per capire l'oggi e il perché dell'"Agorà delle cooperative sociali e delle professioni che vi lavorano" (Torino, 13-15 giugno 2024). Questo testo è di Manuela Garbini, che ringraziamo.

«Avevo 25 anni e mezzo quando ho detto di sì ad alcuni amici che avevano avuto l’idea e l’intenzione di aprire una cooperativa sociale e mi chiesero se volessi farlo insieme a loro. Pochi mesi dopo ne ero la vicepresidente e qualche anno dopo ne sono diventata presidente/legale rappresentante.

Oggi ho quasi 45 anni, sono una “semplice” socia, lavoro in alcuni dei servizi educativi che la cooperativa promuove, svolgo la funzione del coordinamento e mi occupo di progettazione e sviluppo.

La mia cooperativa si trova attualmente “al dunque”: nell’approvazione del bilancio 2023, che abbiamo la possibilità di votare entro il 30 giugno prossimo, noi soci dobbiamo deliberare se approviamo un bilancio con una perdita economica consistente e come sarà coperta questa perdita entro la fine dell’anno solare in corso.

L’unica forma possibile di copertura della perdita a bilancio è la ricapitalizzazione della cooperativa. Quindi il versamento, nelle sue casse, di quote di capitale messe dai soci presenti o che decidano immanentemente di diventarlo, con il consapevole ed esplicito obiettivo di intervenire a sanare questa perdita.

Ha senso che i soci presenti o prossimi decidano di fare tale investimento, se non si dovrà trasformare in un sacrificio, ossia se e solo se la cooperativa stessa sarà in grado di dimostrare di aver analizzato i meccanismi, le scelte, gli errori, che hanno portato a questo catastrofico risultato e di aver individuato una strategia per evitare non solo di riprodurlo, ma di produrrne uno di segno opposto.

Sostanzialmente ha senso intervenire di tasca propria per appianare questo buco se e solo se la cooperativa è in grado di prevedere una trasformazione a partire dalle basi, che arrivi a mettere in discussione i capisaldi, le convinzioni profonde e soprattutto le abitudini, i meccanismi autonomi. O meglio detto, se è in grado, pur tenendo ferma la vision, di cambiare radicalmente la mission.

Sono drammaticamente bellissimi i ragionamenti che da diversi mesi, prima il CdA, poi l’Assemblea Soci intera, ora tavoli trasversali autocostituiti, stanno facendo con i diversi consulenti che ci stanno accompagnando a dipanare la matassa. È enorme la conoscenza e la competenza che abbiamo acquisito solo preparando il progetto per partecipare a un bando promosso da Fondazione Cariplo proprio sul capacity building.

Non ho ancora capito se avremo il tempo e la possibilità di mettere a frutto tutta questa consapevolezza acquisita.

Ma quello che mi strugge in questi ultimi mesi, e in particolare nelle ultime settimane, è la crisi della dimensione relazionale, sociale che è messa sotto torchio dalla crudezza di questo momento.

È evidente che ci sono delle responsabilità e che non possono essere così equamente suddivise come invece, per quanto doloroso e difficile, possa essere fatto con il debito da ripianare.

Ogni mattina mi ricordo che responsabilità non è colpa, ma è capacità di rispondere, questo mi hanno insegnato alla Scuola per Educatori ormai diversi anni fa (più o meno gli stessi anni di vita della cooperativa). Tuttavia proprio noi, noi che ci siamo scelti per fare un altro tipo di cooperativa, noi che per anni dai consulenti siamo stati definiti le “mosche bianche” per correttezza e radicalità nell’etica professionale, noi adesso non siamo in grado di rispondere alle domande che il freddo bilancio ci pone e che qualcuno tra i soci esplicita, senza sentirci accusati, senza sentirci toccati sul personale e sentendoci negato il meritato e doveroso riconoscimento.

È un compito estremamente difficile perché le questioni sono complesse e non è semplice darne risposta. Vale la pena ricordarsi sempre che in questi quasi vent’anni abbiamo sempre dovuto impegnarci a fronteggiare delle crisi, dalla concorrenza sleale agli attacchi politici, dall’adeguamento alle normative sempre più esigenti e lontane dalla vita delle persone e dei servizi, alla crisi sociale ed economica.

Nel punto in cui sono in relazione agli altri soci, vivo una sorta di “bipolarismo schizoide”: alterno giorni dove credo che non sarà mai possibile attivare dinamiche differenti, e che le dinamiche che attraversano il gruppo fondativo e la relazione tra questo e gli altri hanno ormai inquinato tutto, rendendolo asfittico e sterile, a giorni che sono nutrita dall’energia dei nuovi soci che non vogliono contrapporsi alla storia percorsa, ma essere presi in considerazione, sporcarsi le mani, fino ad assumersi consapevolmente il rischio di modificare la traiettoria senza in alcun modo rinnegare i valori; giorni in cui penso che l’unica soluzione sia chiudere, a giorni in cui penso che per questi nuovi soci e per il valore che questa cooperativa ha portato - pur silenziosamente nella maniera che Gino Strada ha definito “un uomo alla volta” - nel suo territorio di riferimento valga la pena, anche questa pena che stiamo vivendo, di provare ad andare avanti.

La cooperativa come oggetto sociale sta certamente attraversando una crisi trasversale che rischia di spazzarla via dal mercato, dalla scena politica e pure da quella sociale, nonostante la co-programmazione e la co-progettazione siano parole scritte su tutti i documenti. Ma la cooperativa è anche un costrutto relazionale, è un crogiuolo nel quale hanno preso forma interi ecosistemi (= relazioni tra diversi esseri viventi e tra esseri viventi e ambiente).

La nostra cooperativa, dentro la crisi generale della cooperazione sociale, vive la sua crisi specifica che la sta scuotendo dalle radici alle fronde più nuove.

A volte mi sembra che tutti i problemi relativi alla sostenibilità, al dialogo con le istituzioni, al riconoscimento delle professioni, siano problemi molto più facilmente risolvibili di quelli relazionali, delle dinamiche di scontro e posizionamento a cui non siamo stati in grado di sottrarci e che viviamo con ansia, tristezza, dolore, rabbia …

È più facile lottare verso l’esterno, facendo fronte comune, piuttosto che dirigere lo sguardo all’interno e osservare cosa voleva produrre vantaggio e invece ha prodotto danno e cosa ha impedito di fermarsi in tempo. Certo, il fatto che, intanto, tutto il resto scorre, peraltro a ritmi frenetici, complica non di poco le cose perché non ci si può permettere il lusso di aprire gli “stati generali della nostra cooperativa” e nel frattempo non lavorare, non spaccarci la testa in quei piccoli grandi problemi, in quei piccoli grandi drammi che sono quelli che ci hanno spinto 20enni a costituire un ente giuridico per provare a darvi risposta o almeno accompagnarne la ricerca.

Avevo l’ambizione di scrivere il mio contributo quando avessi avuto una bella idea da mettere nero su bianco, ma i giorni passavano e non la trovavo e ho deciso di scrivere lo stesso, pensando che, mentre avrei messo in ordine i pensieri, avrei trovato un taglio utile anche al nostro processo.

Invece no… non sono arrivata "al dunque", come forse non sarà possibile fare con i processi profondi della cooperativa. Ho l’idea che si troverà il modo di dare forma ai processi organizzativi, ma delle dinamiche che cosa ce ne faremo e che cosa ci faranno? Non riesco proprio a immaginarlo.

A volte penso che sarebbe stato meglio fare una cooperativa “di lavoro” nel senso, “semplicemente”, di mettere in comune il lavoro, che è già una cosa alta e importante, anziché fondare una cooperativa “di relazioni” dove poi un sacco di energia va nella loro manutenzione, nell’accettarne il cambiamento. Altre volte penso che questa forma che le abbiamo dato quasi venti anni fa è forse LA sfida ed è il motivo per cui attraversiamo la vita degli altri e ne veniamo attraversati, è la cifra che consente un risultato quantitativamente magari poco rappresentativo, ma qualitativamente profondo.

Mi resta solo la domanda se questa sia poi, in fondo, una posizione in effetti sostenibile, umanamente questa volta, prima che organizzativamente ed economicamente».

Manuela Garbini, socia di una cooperativa della provincia di Varese

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