22. Io educatrice racconto / di Daniela Montemurro

Educatori professionali: 3° persona, femminile, plurale

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Immaginate una giornata di lavoro come tante. Sull’agenda ho segnato “accompagnamento per udienza penale”; non è un evento eccezionale quando lavori come educatrice professionale al ?anco di donne che hanno subito violenza. Le Forze dell’Ordine, i Tribunali e gli studi legali sono un po’ la tua seconda casa.

Da qualche anno mi occupo di donne e minori inseriti in Casa Rifugio, ma negli anni ho affiancato minorenni e adulti dalle vite più disparate. Ho cambiato spesso ambito lavorativo, seguendo la tipica carriera orizzontale di noi educatori ed educatrici, e mi sono concessa anche un periodo all’estero per capire come funzioni altrove questo lavoro così poliedrico. Immaginate centri di aggregazione giovanile, comunità, servizi territoriali, una lingua differente e una domanda come compagna di viaggio: ma perché siamo così poco considerati?

Ho cercato risposte a questa domanda ovunque! Nei libri, nei corsi e l’ho domandato alle mie referenti di tirocinio, alle mie coordinatrici, alle mie colleghe – tante – e agli sparuti colleghi uomini. Ciò che mi è stato restituito è un puzzle in cui ogni pezzo racconta uno spicchio di realtà che però non restituisce una cornice adeguata in cui contenerlo.

Così, osservando le mie interlocutrici, ho iniziato a pensare di dover riformulare da capo la mia domanda arricchendola di quella complessità che certi interrogativi meritano: può l’invisibilità della professione educativa, in quanto professione di cura, essere connessa al tema dell’emancipazione femminile?

Si dice che il modello di welfare italiano sia basato sulla famiglia, ma si dice male. Come ben sappiamo nelle società odierne la cura dell’essere umano è appannaggio quasi esclusivo del genere femminile. Le immagini della donna-madre, della donna-moglie, della donna-caregiver sono realtà che non possiamo negare; sarebbe più corretto dire che il nostro sia un welfare basato sulla donna e sulla sua presunta capacità innata di accudire.

Questo modello di educazione è radicato a tal punto che spesso le donne trovano la propria emancipazione economica all’interno di quelle che vengono definite “professioni di cura” e questo perché, volenti o nolenti, nei secoli hanno potuto acquisire e sviluppare quell’intelligenza emotiva che sta alla base di molteplici competenze educativo-riabilitative. Parlo di quella segregazione formativa a cui la maggioranza di noi educatrici è stata esposta in maniera inconsapevole e che ha condizionato le nostre scelte di studio e di lavoro.

Nel panorama del mercato del lavoro, la professione educativa appare, a un primo sguardo, ribaltare qualsiasi stereotipo di genere. Le donne che si iscrivono ai nostri corsi di studio si laureano con voti più alti (lo evidenziano bene le ultime statistiche di Almalaurea) e ciò si traduce presto in altissime percentuali di assunzioni. All’interno degli enti che si occupano di sostegno, riabilitazione e cura le donne, al contrario di come funzionano altri settori lavorativi, hanno maggiori possibilità di costruirsi una carriera verticale che le porti a ricoprire posizioni di rilievo come il coordinamento di area, ruoli amministrativi e anche di presidenza.

Eppure tutto ciò non fa notizia.

Sui media non si urla al miracolo imprenditoriale e tra noi “addetti ai lavori” non si ha la percezione di star partecipando ad una straordinaria rivoluzione culturale. Il perché è presto detto: istitutrici, tate, badanti e pedagogiste in genere sono nell’immaginario comune da sempre. Detto in altre parole, mentre le quote maschili all’interno di una équipe suscitano scalpore perché sono come mosche bianche nei nostri servizi, le donne sono niente meno che dove ci si aspetterebbe di trovarle, in mezzo ai bambini, agli anziani e alle persone con disabilità a fare ciò per cui sono nate: accudire, curare e confortare. Perché bisognerebbe pagare, e pagare bene, per questo?

Quando parliamo di “diritti degli educatori” forse faremmo bene a ricordarci che stiamo parlando dei diritti dell’85,9% delle educatrici (Almalaurea, 2021). Io sono una donna che lavora con altre donne per altre donne e forse al momento ho un osservatorio “viziato” del fenomeno. Ma è un punto di vista. Un punto di vista che qualche anno fa non avevo e che mi interroga quotidianamente.

Siamo professionisti della progettazione, del cambiamento e della speranza nel futuro. Credo che farci domande sia necessario e doveroso, ma è nelle risposte che ci diamo che si può nascondere la nostra reale possibilità di rivoluzione.

Daniela Montemurro*

*Educatrice professionale in Casa Rifugio ad indirizzo segreto

(Per questioni legate alla messa in protezione dei nuclei inseriti viene omesso il nome della struttura e il territorio di appartenenza)

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IL PROGETTO EDITORIALE 
In vista dell’AGORA' DELLE EDUCATRICI E DEGLI EDUCATORI (da giovedì 25 a sabato 27 maggio) la rivista Animazione Sociale ha avviato una raccolta di testi. Ti chiediamo di raccontare la tua professione di #educatrice/#educatore. Nei servizi, a scuola, nelle comunità, in strada, nelle carceri, nelle case, negli ospedali, nelle mille altre scene educative. In poche righe o con un testo più articolato.

Raccontare quello che vivi e vedi stando accanto alle storie, le riflessioni che come équipe fate, le domande che ti porti a casa la sera o a fine turno la mattina, le riflessioni che senti importante condividere oggi perché la dignità della professione educativa sia maggiormente riconosciuta.

INVIA ANCHE TU IL TUO RACCONTO (animazionesociale@gruppoabele.org). La rivista si occuperà di rilanciare sui canali social e nel blog sul sito.

Se desideri partecipare all’AGORA' DELLE EDUCATRICI E DEGLI EDUCATORI (online o in presenza a Torino) iscriviti qui: https://www.animazionesociale.it/it-schede-3372-dignita_del_lavoro_educativo


 

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