21. Io educatore racconto / di Lino Latella

Noi, supereroi senza superpoteri

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Girovagando per il web, se a qualcuno di voi, com’era successo a me, venisse in mente di fare un regalo ad una persona che fa l’educatore, potreste imbattervi in qualche sito che in maniera giocosa, per enfatizzare probabilmente le “fatiche” di chi svolge questo lavoro, mette in vendita oggetti, dalle tazze ai grembiuli alle felpe, che riportano la scritta: “Io sono un educatore, qual è il tuo superpotere?”. Non ho niente contro il gadget in sé, sia chiaro. È solo che leggere quella frase, a me che faccio l’educatore e da molto tempo ormai, ha dato da pensare.

Si tratta della mercificazione del paradigma più dilagante (e fuorviante, inappropriato), rispetto alla figura dell’educatore. Immaginato come un essere metà uomo e meta?... Peter Pan (nel senso dell’eterno bambino, non per la capacità di volare), di cui nessuno sa dire che lavoro faccia (educatori compresi...) ma che, grazie al suo superpotere appunto, salverà i poveri e gli indifesi dalle angherie della vita. E sapete qual è il superpotere in questione nell’immaginario collettivo? La vocazione.

Ora, chi mi conosce lo sa, sono un grande fan dei Supereroi in genere, pertanto mi tuffo dentro al parallelismo per riflettere su una questione, a mio parere, davvero calzante: i due più iconici e potenti supereroi dei fumetti, sono Iron Man e Batman, rispettivamente per Marvel e DC e credo che chiunque sappia che nessuno dei due, ovvero Tony Stark e Bruce Wayne, sono dotati di alcun superpotere.

Si tratta di due uomini intelligenti che, grazie alle loro doti (ok, ok, sono anche ricchissimi, ma credetemi, nel nostro caso un’immensa ricchezza non sposterebbe di una virgola il ragionamento), hanno studiato, si sono formati nelle migliori scuole, hanno fatto esperienza sul campo, per riuscire a creare delle armature che gli consentissero di poter lottare e sconfiggere i cattivi, ma siccome i cattivi diventano sempre più forti, nel tempo, tra un combattimento e l’altro, continuano a formarsi ad allenarsi, ad affinare le loro doti, per essere sempre al passo con il villain di turno, che combattono perché hanno la vocazione (ma sanno benissimo che quella da sola non basta), ad aiutare a proteggere l’umanità (e qualche problemino da risolvere ve lo concedo), sebbene non sempre ci riescano, ma hanno imparato benissimo a tollerare la frustrazione.

Ecco, per essere educatori bisogna essere intelligenti, utilizzare questa dote per costruirsi una formazione adeguata, ma anche per imparare dall’esperienza quotidiana, per comprendere che i libri, fondamentali, ci rivelano pero? solo una parte della verità, l’altra la scopriamo giorno per giorno.

Man mano che si va avanti poi, bisogna continuare a formarsi, dove con questo termine intendo anche un lavoro su noi stessi, costante, perché non potremo aiutare nessuno se non ci conosciamo profondamente (il perché agli educatori non sia imposto, come per gli psicologi, un lavoro di supervisione personale che vada oltre la preziosissima supervisione d’équipe, non mi e? ancora chiaro), se non abbiamo contezza dei nostri limiti, dei nostri pregiudizi, se non impariamo a tollerare le frustrazioni con le quali ci confrontiamo ogni giorno e a non viverle come sconfitte “tout court”, ma ogni volta come un punto di partenza.

È necessario che chi si avvicina a questo lavoro consideri “vocazione” e “buon senso” piccoli tasselli di un tutto che è fatto di molto altro. È fondamentale che gli educatori diano nella loro testa, prima ancora che nel mondo del lavoro, autorevolezza e dignità alla loro professione, che si pensino professionisti.

Ma siccome anche Iron Man e Batman, nelle sfide più ardue, hanno dei validi e altrettanto potenti aiutanti, non è pensabile che si possa fare tutto da soli.

Abbiamo bisogno del sostegno innanzitutto dell’Università, che deve ripensare, a mio modesto avviso, in maniera sostanziale, l’idea stessa del tirocinio com’e? intesa oggi: 4/500 ore spalmate in tre anni, in una qualunque struttura educativa, per di più sottostando a mille limitazioni (legittime ci mancherebbe, ma rivedibili in taluni casi, anche in sinergia con le Associazioni che accolgono gli studenti), sono troppo poche, non fanno sì che si possa cogliere l’essenza di cosa voglia dire fare questo lavoro all’interno di un servizio, senza alcun “setting”, bombardati da mille stimoli quotidiani, dove ci si ritrova a fare mille cose che nulla hanno a che fare con quello che si è studiato ed alle quali, la maggior parte dei neo-educatori, fatica, comprensibilmente per certi versi, a dare un senso.

Provo a lanciare una proposta (nulla di innovativo): riorganizziamo il piano di studi in maniera che sia previsto un intero semestre di tirocinio, con la possibilità di affidare ai tirocinanti, qualche responsabilità in più, ripeto, con la collaborazione delle Associazioni ospitanti. Altrimenti, l’onere della formazione degli educatori alla prima esperienza, spetta sempre a chi assume e delle volte è un costo che non ci si può permettere.

All’Università chiederei anche di poter formare gli studenti a scrivere; già, gli educatori non sanno scrivere, nel senso che non hanno proprio idea di come vada imbastita, ad esempio, una relazione di aggiornamento per il Tribunale per i Minorenni. Ora, se in merito ad alcuni aspetti certamente sarà il coordinatore o chi per esso a indirizzare il lavoro in tal senso, sarebbe pero? auspicabile che gli educatori giungessero al lavoro già capaci di “maneggiare” un’adeguata terminologia “tecnica”, di esprimere un concetto in maniera (di nuovo) professionale e non come se scrivessero il tema alle Scuole Medie. Lo dico con estremo rammarico, ma questo è lo scenario in cui si muove chi è chiamato a gestire educatori e la fortuna è che, molti dei ragazzi che iniziano, dopo un momento di “smarrimento”, si rendono disponibili ad imparare.

Il discorso è aperto, una soluzione ottimale ancora di là da venire, ma, con la collaborazione di tutti, spero che a un certo punto (non troppo in là però...), alla domanda “Qual è il tuo superpotere?”, un educatore possa rispondere: “Io sono un professionista”.

Lino Latella*
*Educatore professionale, Responsabile Nazionale Area Accoglienza Fondazione Arché ONLUS, Milano

 

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