18. Io educatrice racconto / di Laura Ferro

Dall'arte della gentilezza alla professione della cura

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È per quel sorriso. Certo, un sorriso sul volto scalda il cuore, ma parlo di quello più profondo, insito nello sguardo e che arriva diretto all’anima, quel sorriso che muove le montagne. Quel sorriso mi fa andare a letto in pace alla sera e mi fa alzare alla mattina desiderosa di impegnare ogni mia energia e forza. La professione che ho scelto è così ricca e poliforme, ha radici profonde nell'attenzione all'altro, nel saper vedere l'altro, riconoscerlo e conoscerlo per accoglierlo e accompagnarlo.

La mia famiglia mi ha insegnato fin da piccola tutto questo attraverso gesti gentili e crescendo ho scoperto che dell'arte della gentilezza si può fare una professione. Studio intenso, tirocini, corsi, sostituzioni e azione sul campo mi insegnano giorno per giorno ad affinare le mie competenze nel prendermi cura dell'altro. Perché questa scelta? Mi colgo sempre ad interrogarmi su come sia possibile che ci si dimentichi di quanto siamo umani, nel vero senso del termine: tante sfumature di finitezza e fragilità e in tutto questo la cura è un’azione che accompagna ogni fase della vita, abbiamo bisogno di cura e relazioni per vivere.

Come sostiene Alessandro D'Avenia "La fragilità ci permette di scoprire la meraviglia", e queste parole mi sono davvero care perché più proseguo nel mio percorso e più mi meraviglia l'essere umano. C'è così tanto da scoprire, c'è così tanto da agire eppure a volte basta così poco da offrire: la propria presenza, la propria mano per accompagnare con rispetto e gentilezza. La vulnerabilità è ciò che ci contraddistingue e rende speciali, abbracciarla permette di vedere oltre, di poter ammirare tutto quello di cui siamo capaci.

Ho avuto la grande fortuna di lavorare con diverse "utenze", conoscere così tante persone e famiglie che mi hanno così arricchita. I bambini nell’asilo nido e nel post-scuola che si affacciano alla vita vispi e desiderosi di crescere in fretta; bambini e adulti con disabilità nella complessità dell’avviamento alle autonomie, nella crescita o nel mantenimento di ciò che è stato acquisito; persone adulte che lottano quotidianamente contro fantasmi della mente cercando un proprio posto nel mondo con il supporto della comunità; e gli anziani, sempre più vecchi e pluri-patologici che tanto vorrebbero sentirsi ancora parte del tessuto sociale della loro comunità.

Alla fine ho deciso di fermarmi nell'area geriatrica, di essere educatrice in RSA. Ho scelto e lo ri-scelgo ogni giorno perché gli anziani e i loro cari hanno il diritto di essere accompagnati in questo ultimo tratto, perché nella società odierna sembra si sia smarrito il significato dell’invecchiare, e del morire. C’è un punto di fine nella nostra vita, non siamo più abituati a pensarlo e la perdita è divenuta un mostro difficilmente razionalizzabile e superabile, come se la medicina e la tecnologia ci rendessero immortali, come se i cimiteri fossero luoghi dimenticabili.

Ogni giorno entro in RSA con un infinito ripetersi di “Buongiorno!” attraversando il nucleo, perché "ad ogni anziano il suo saluto" e questo si ripete alla sera nel congedo, ricordando ai più ansiosi che ci si rivedrà domani; che faremo insieme qualche attività, che ci aspetta qualche festa, che c’è da vivere ogni minuto a disposizione. In RSA c’è molta vita e non mi stancherò mai di ripeterlo, si sbaglia chi pensa che sia l’anticamera del nulla, un luogo di attesa silenzioso, l’RSA è proprio il contrario, c’è sempre rumore, c’è sempre tanta gente, c’è sempre vita.

Ci sono sempre educatori pronti a progettare attività, interventi, eventi perché nulla è lasciato al caso, tutto è pensato e realizzato per offrire cura, per portare benessere. Anziani che chiacchierano, che si ritrovano dopo anni e anche che bisticciano per il canale alla tv, per il posto a tavola o per quel che pensano di aver sentito. Ogni giorno ascolto incredibili racconti di tempi lontani a me, ma così ricchi di forza e resilienza, di cui oggi avremmo ancora tanto bisogno. L'amore per la semplicità e per le virtù, sapersi destreggiare tra mille lavori e l'arte dell'arrangiarsi. Imparo così tanto ogni giorno con loro.

Ivo Lizzola ha coniato il termine “sguardo ricompositivo” per indicare il bisogno di riconoscere l’altro nella propria interezza e non volerlo parcellizzare per riconoscere solo ciò che appartiene al proprio campo d’indagine: questo sguardo è l’arma vincente per raggiungere davvero l’altro, per potersi prendere cura di lui.

“Tutti, infatti, abbiamo bisogno di cura. Abbiamo necessità di avere cura di noi stessi e, nello stesso tempo, di ricevere cura dagli altri e di dare cura agli altri; per questo si può parlare della cura come di una primarietà ontologica”. Luigina Mortari in "Alle radici della cura" non potrebbe descrivere meglio la necessità umana del “prendersi cura di” e del ricevere cura; questa cura ci permette di vivere, crescere e sopravvivere alle intemperie della vita. “Avere cura è procurare cose essenziali all’esserci, preoccuparsi per la qualità della vita, avere premura e sollecitudine affinché la vita possa fiorire. Avere cura dell’esserci è dunque rispondere alla chiamata di salvaguardare e far fiorire il poter essere possibile proprio dell’esistenza”.

Poetica verità, oserei dire la finalità della mia professione: saper osservare e ascoltare, aprirsi all’altro per accoglierlo ed empaticamente leggere dentro di lui per poter accompagnarlo, al meglio, verso la propria fioritura, perché possa sbocciare perdurando. Sono grataalla professione che svolgo per tutto ciò che ho imparato e che ancora potrò imparare, sono grata per tutte le persone che mi permette di conoscere e per la grande rete di aiuto che negli anni sto costruendo.

Laura Ferro*

*Educatrice professionale, opera all'interno di una RSA della provincia di Varese

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