17. Io educatore racconto / di Cristiano Dorigo

Dobbiamo abitare la dignità che vogliamo

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Quando mi chiedono che mestiere faccio rispondo sempre con orgoglio: lavoro da tanti anni nel sociale. Da molti di questi con giovani donne in difficoltà, ma prima in diversi altri settori: stranieri, tossicodipendenti, disabili, anziani.

Tante persone incontrate in tanti anni di lavoro, cosa posso dirne?

Posso dire che sono a un punto di equilibrio fra stanchezza e tenerezza, fra il non poterne più e il volerne ancora, fra “basta non voglio più sentir mormorare una parola” e “vieni qui che ne parliamo”.

Succede, dopo tanti anni, di riuscire a capire qualcosa di più, a non farsi più sommergere dalla quotidianità e vedere la complessità nella sua ampiezza e profondità, a sentire che davanti abbiamo una persona nella sua inestricabile interezza fatta di difese, contraddizioni, ferite, bellezza.

E accade di specchiarcisi, di vedere in lei che, quello che ci piace e quello che no, è ciò che ci piace e non ci piace di noi, che a sua volta non è piaciuto a chi ci ha feriti, fatti sentire piccoli e indifesi, o cattivi e stupidi, senza nemmeno saperlo: i percorsi relazionali lasciano segni indelebili, possono essere cicatrici o carezze gentili, s’incistano nella memoria affettiva e ci sostengono o affliggono, quasi sempre entrambe le cose.

Vale per tutti: per noi e per i nostri utenti.

La nostra professione è indefinita, senza copertura politica, nessuno capisce cosa sia, né noi siamo del resto in grado di spiegarla come si deve; forse perché non è mai aderente a un profilo certo, ma piuttosto adattabile a quel che serve (“che poi servirà davvero?” mormorerà di certo qualcuno).

I nostri stipendi sono spesso ridicoli, specie se rapportati al carico di responsabilità, a quello emotivo, al grumo che ti prende allo stomaco dopo aver sentito certe storie potenti come una tempesta estiva. 

Questo mestiere è un costante cammino in equilibrio sopra biografie incerte, un continuo rattoppo di ferite aperte, e stare nell’incertezza con continuità può provocare cadute da cui si esce a pezzi, oppure con la capacità di rialzarsi, in sintonia con le persone che accompagniamo, a cui insegniamo che si impara da tutto, non si butta niente, e noi e loro, siamo fatti di quei pezzi sparsi che quando va bene, si arriva alla sufficienza.

Non vorrei essere frainteso però, non voglio fare poetica su una cosa come il lavoro, tessere le lodi di una professione senza tener conto del non riconoscimento della stessa. Ma spesso, forse troppo spesso, sento enunciati solo gli aspetti negativi, quel che non funziona, gli intoppi, le frustrazioni: che ci stanno, ci vogliono, ma non vorrei cadessimo nella trappola del mischiare tutto insieme.

Se da un lato occorrerebbe incidere sul fronte sindacale (i diritti, i riconoscimenti, le rivendicazioni salariali), dall’altro dovremmo parlare e far parlare di quello che facciamo, di come lo facciamo, di quali risultati otteniamo, che costi economici risparmiamo alla collettività: penso per esempio ai progetti di prevenzione, di riduzione del danno, impalpabili quanto necessari. 

Questo secondo me dovrebbero fare gli educatori per trovare finalmente il riconoscimento che spetta loro: informare, raccontare, mostrare alla luce del sole tutto il lavoro che si fa in ombra, lontano dai posti dove si costruiscono, stabiliscono e diffondono le regole dell’opinione pubblica, che forma la percezione collettiva di cosa è necessario e cosa no.

Oggi è forse più semplice di un tempo vista la gratuità dei molti canali di diffusione del verbo: coi social e la rete in particolare.

Un’opinione personale, quasi intima: credo che, al netto delle condizioni di cui sopra,questo sia uno dei più bei mestieri che si possono desiderare; credo sarei un adulto (ormai maturo) meno comprensivo se non avessi potuto esercitare questo mestiere; credo sia stato un privilegio aver potuto usufruire di tanta formazione, supervisione, confronti, incontri; credo di aver imparato la compassione e di sapere perciò quanto spesso mi ci allontani, ma avendo ormai imparato le dritte, so dove tornare quando mi smarrisco.

E sono certo che aver condiviso tanto tempo con molte persone, ognuna unica nel suo stare al mondo in modo personale e originale, sia impagabile. Anche quando mi sembra di non poterne più, in realtà ne posso sempre ancora un po’.  

L’inizio è stato duro: ero ossessionato dall’essere una funzione, dal fare bene stando alle regole stabilite, dimenticando che l’ingrediente principale ero io, e che quel sottile disagio che sentivo fra quello che si sarebbe dovuto fare, e quello che invece pensavo fosse giusto, mi rendeva un esecutore con poca personalità. Ho commesso moltissimi errori di valutazione, reagito male in certe situazioni critiche. Ci ho messo anni a capire che stare accanto, essere più che fare, ascoltare più che consigliare, accogliere più che risolvere, è il modo, e questo include rispetto (quando lo si concede di solito si viene rispettati), chiarezza (dire invece di girarci intorno), fiducia (che si riceve solo dopo averla concessa).

Questo mestiere non è una scienza esatta, ma si modifica col modificarsi dell’esistente, che produce nuove esigenze, istanze, necessità.

Questo mestiere ha bisogno di rivelarsi, di incontrarsi, di produrre credibilità, per arrivare a essere competitivi, autorevoli, credibili con chi definisce diritti e doveri.  

Abbiamo il dovere e il diritto di essere riconosciuti, e altresì di conoscerci e riconoscerci al fine di rilanciare, proporre nuove istanze, immaginare scenari inimmaginati.

Dobbiamo abitare la dignità che vogliamo.

Cristiano Dorigo*

*Da oltre vent’anni mi occupo di giovani adulte in un progetto di autonomizzazione di IPAV Venezia. Sono inoltre autore e curatore di iniziative culturali e editoriali. 

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IL PROGETTO EDITORIALE 
In vista dell’AGORA' DELLE EDUCATRICI E DEGLI EDUCATORI (da giovedì 25 a sabato 27 maggio) la rivista Animazione Sociale ha avviato una raccolta di testi. Ti chiediamo di raccontare la tua professione di #educatrice/#educatore? Nei servizi, a scuola, nelle comunità, in strada, nelle carceri, nelle case, negli ospedali, nelle mille altre scene educative? In poche righe o con un testo più articolato.

Raccontare quello che vivi e vedi stando accanto alle storie, le riflessioni che come équipe fate, le domande che ti porti a casa la sera o a fine turno la mattina, le riflessioni che senti importante condividere oggi perché la dignità della professione educativa sia maggiormente riconosciuta.

INVIA ANCHE TU IL TUO RACCONTO (animazionesociale@gruppoabele.org). La rivista si occuperà di rilanciare sui canali social e nel blog sul sito.

Se desideri partecipare all’AGORA' DELLE EDUCATRICI E DEGLI EDUCATORI (online o in presenza a Torino) iscriviti qui: https://www.animazionesociale.it/it-schede-3372-dignita_del_lavoro_educativo


 

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