13. Io educatrice racconto / di Erica Forcellini

La bellezza di accudire persone al crepuscolo

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Lavoro come educatrice con gli anziani da quasi 5 anni, che non sono così tanti paragonati a quelli di molti altri professionisti, ma non sono nemmeno così pochi per una ragazza di 28 anni.

Anche perché, ad oggi, il lavoro con gli anziani è “arte per pochi”, rappresenta una piccola nicchia all’interno del mare delle professioni educative. Nemmeno all’università mi era mai stato citato né era presente tra le materie a scelta, né alla triennale, né alla magistrale. Buio totale sulla figura dell’educatore nei servizi per anziani.

A me è capitato come una cosa totalmente inaspettata e mai desiderata un pomeriggio di agosto in cui ricevetti una telefonata. Mi volevano conoscere fissandomi un colloquio: “Ci servirebbero alcune ore per l’asilo nido ma alcune anche in RSA”. Da quel momento ho spalancato i miei occhi ad un mondo totalmente nuovo, spesso dimenticato, quello degli anziani.

Dietro a quella barriera di pregiudizi e incompletezza di informazioni scoprii che, dopo aver lavorato con bambini, con la disabilità, con i traumi, forse la mia utenza erano proprio i "vecchi".

Gli ultimi, i socialmente definiti “lenti”, che poi vorrei vedere voi a rincorrere un anziano in giardino convincendolo a rientrare perché non fa abbastanza caldo.

I silenziosi, i saggi, i coraggiosi, i testimoni del passato e i raccontafavole della buonanotte.

I vecchi, come cantava Baglioni, non li vuole mai nessuno.

Questo ho imparato mentre mi addentravo sempre più nelle viuzze del lavoro in RSA. Quanto poco vengono compresi, considerati, apprezzati, gratificati dalla nostra società proprio coloro che la nostra società l’hanno costruita. La parte fragile del mondo, la cui vera fragilità è il non essere ascoltati da una società che pensa prima alla produttività, poi alla storia. La vera fragilità sta nel mondo che volta le spalle.

Il lavoro dell’educatore in RSA non è riassumibile in poche righe, c’è così tanta bellezza nel lavoro di cura che a descriverlo ne verrebbe fuori un testo da studiare.

Ma la riflessione che vorrei fare qui riguarda le piccole grandi cose che ho imparato nel fare questo lavoro. E che sono una piccola parte rispetto a quello che ancora mi aspetta. Condividerle rende pubblico, visibile, indelebile ciò che, secondo me, ad oggi vale nel lavoro educativo con anziani.

Ho imparato ad abitare silenziosamente i nuovi spazi di coloro che hanno vissuto decenni nelle loro case e che vivono un tempo nuovo, occasione di rinascita, o semplicemente di passaggio. Perché si, c’è chi varca la soglia di una RSA pensando sconsolato a quanto sta lasciando indietro, c’è chi invece riesce a vedere quanto ancora rimane davanti a sé e coglierlo al volo. È compito nostro l’accoglienza, è parte integrante della relazione. E come ci si presenta con un primo “buongiorno” farà la differenza per il tempo a venire.

Ho imparato come il lavoro di cura non sia farmaci e terapie, ma  parole, gesti, sorrisi anche dietro ad una mascherina, carezze. Il famoso tocco terapeutico che in maniera non invadente riesce a comunicare “sono qui” e riesce a rispettare lo spazio dell’altro.

Ho imparato a trattenere le emozioni in reparto e scoppiare poco fuori. Ché non possiamo permetterci di essere fragili davanti, ma dietro c’è la forza dell’équipe che ti aiuta a rimanere in piedi.

Ho imparato a curare loro e curare un po’ anche me. Ho scoperto l’armonia tra il tenere duro e il lasciarsi andare, la giusta distanza tra sé e gli altri.

Ho imparato a notare i particolari, quelli che nessuno vede o che si fanno fatica a riconoscere. Perché è più facile parlare a quattr’occhi senza sosta con chi ti capisce piuttosto che rimanere in silenzio davanti ad uno sguardo perso.

Ho imparato a studiare le espressioni del viso, a capire quando una smorfia di dolore significa qualcosa in più del semplice “non sto bene”, perché vale tanto ciò che si dice ma ancora di più quello che si pensa.

Imparo ogni giorno la cultura. Sembrerà banale, ma a scuola certe cose non si insegnano. Come vivevano i nostri vecchi in tempo di guerra non è scritto sui libri. E nemmeno che si riunivano intorno ad un focolaio tra vicini di casa, se casa si può chiamare una baracca in campagna con quattro mura e assi di legno al posto del tetto.

Imparo che vivere il quotidiano con loro non significa riempire le giornate con parole e attività da fare ma esserci, il giusto tempo, riempiendo il giusto spazio, all’interno di una giornata che ognuno di loro vive in maniera differente.

Imparo a dare il buongiorno a A. e cantare il ritornello che piace tanto a B., a sciogliere il cioccolatino in microonde a C., e a sfogliare la rivista di gossip insieme a D. per tenerci aggiornate sulle ultime futili notizie.

Imparo a non andare di corsa, tranne quando devo correre per organizzare le giornate.

Imparo a sostare silenziosamente nei reparti e a non urlare “buongiorno” quando entro in salone, che magari qualcuno è ancora in dormiveglia. Io, che in questa vita vado sempre di fretta e che in quella precedente ero probabilmente un sergente svizzero.

Imparo a rispettare nuovi tempi, loro e miei.

Imparo l’arte di dare del “lei”, un dress code che sta bene su tutto. E prendo le distanze da chi, senza conoscersi, dà del “tu”, come se con aria prepotente qualcuno arrivasse e facesse finta di conoscermi quando a malapena sa il mio nome e due informazioni fornite dai miei familiari. Il “Tu” deve essere una piccola conquista. Che non va bene per tutti e che talvolta viene necessariamente usato con chi, non per volontà sua, prende le distanze da te, dal mondo, dai suoi familiari, non riconoscendo più che una penna si chiama “penna”. Con loro sì che il “Tu” è un aggancio, è un “ciao, ti conosco”, anche se non ci si conosce. Per far sentire l’altro un po’ più calmo, un po’ più a casa.

Imparo ad apprezzare brani di tempi che sembrano così lontani. E che ad oggi fanno parte della mia playlist in macchina, nonostante i commenti degli amici “sei vecchia dentro”. Forse lo sono un po’ ed è grazie a coloro con cui lavoro. Grazie a voi se, ad oggi, amo Massimo Ranieri, non l’avrei mai detto.

Imparo il valore della squadra con cui lavoro, spesso cambiata in questi anni e sempre apprezzata per la presenza e il potenziale. È grazie alle colleghe che ho imparato il lavoro di cura, è grazie alle occasioni vissute con loro che ho potuto sperimentare la bellezza di questo lavoro.

Imparo anche a lasciare andare, quando è ora. A tendere la mano e stringerla fino all’ultimo respiro, quando è possibile.

Imparo a elaborare un lutto non mio e a essere una spalla per coloro che la persona lascia indietro. Perché passa dall’altra parte, varca una soglia che nessuno di noi conosce e nessuno sa dove la sua anima si poserà.

Ad oggi, se qualcuno mi chiedesse “perché lo fai?” risponderei che ogni giorno è diverso, che ritrovo le stesse persone del giorno prima un po’ cambiate, un po’ cresciute, un po’ più vecchie. Lo faccio perché è bello conoscere nuove storie, portarmi a casa una tessera del puzzle della loro vita e imparare qualcosa ogni giorno. A volte penso che sia più quello che danno a me, che quello che io do a loro.

Ed è una sfida, se non un piacere, accompagnarli per un pezzetto della loro vita, l’ultimo.

Erica Forcellini*

*Educatrice professionale, attualmente alla RSA Pineta di Tradate (Va)

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