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La relazione educativa funziona solo se si entra nei loro respiri – Sulla didattica a distanza

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Adornato Laura Insegnante di sostegno
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Con l'emergenza nazionale legata alla diffusione del Coronavirus, dall'oggi al domani tutte le scuole e le istituzioni educative e formative hanno chiuso i battenti catapultando bambini e ragazzi dentro le mura delle loro case, assieme a genitori impegnati anch'essi in uno smart working senza tempo, colti impreparati nel coniugare una nuova gestione della casa, degli spazi, dei figli, dei loro compiti e di tutte le attività che come una cascata inondano le loro giornate.

Già, perché nonostante la chiusura di tutto, la Scuola non si ferma!

Anzi direi: la didattica non si ferma!

Ci siamo dovuti confrontare con Gsuite, Google Classroom, manuali e tutorial infiniti per la creazione delle piattaforme più disparate, stiamo imparando a fare videoconferenze, lezioni videoregistrate, videochiamate di gruppo, tutto ciò assieme al registro elettronico sul quale segnare, caricare, trasferire file.

I nostri telefoni e i nostri pc sono diventati i nostri strumenti di combattimento quotidiano, di sicuro le nostre ancore di salvezza in questo momento di forte distanza, ma anche quegli strumenti che devono scontrarsi con una connessione lenta o a intermittenza, con le liti tra fratelli e genitori con cui condividere lo stesso schermo per tante ore al giorno e con una quotidianità che non è più la stessa.

C'è quindi una didattica che ce la mette tutta per riconnettersi, per ricreare, per "riempire", per impegnare, per non abbandonare, per mantenere il contatto con gli alunni, ma siamo sicuri che questa didattica sia sufficiente a ri-costruire la relazione? O meglio, risulta funzionale per tutti?

 Uno degli elementi cruciali di questa emergenza è la sospensione delle relazioni quotidiane entro cui si sviluppano le nostre vite e tale sospensione è particolarmente vera per gli alunni con disabilità.

L'emergenza da Covid-19 ha messo loro, assieme alle famiglie più svantaggiate, di fronte a richieste più onerose, sia dal punto di vista dei compiti quotidiani sia in termini di carico emotivo: dalle preoccupazioni per un presente e un futuro sempre più incerti alla solitudine generata dal rarefarsi delle figure di riferimento che rappresentavano i nodi della rete dei sostegni quotidiani.

Si tratta di bambini con i quali bisognava lavorare sulla costruzione del tempo e dello spazio già prima dell'emergenza, per cui adesso più che mai bisogna fornirgli dei rituali quotidiani per non perdere il contatto con la realtà, bambini che ora più che mai si sentono disorientati, frustrati, bambini che vivono in un contesto familiare che non sempre dispone di adeguate risorse tecnologiche per una didattica a distanza, o semplicemente bambini che magari faticano a tenere una concentrazione minima e non riescono a stare seduti davanti a uno schermo per più di 5 minuti.

 Il lavoro della didattica a distanza è in questi giorni molto intenso, una giornata di 24 ore non basta più per un'insegnante e come tale ve lo confermo, perché il concetto del tempo è diventato ancora più stretto. È diventato un tempo che va necessariamente riempito, gestito, strutturato, continuamente riadattato, un tempo in cui bisogna essere sempre connessi, rispondere, controllare, un tempo in cui vorremmo dimostrare ai nostri alunni la nostra costante presenza.

Una presenza per loro o forse per un sistema in cui siamo ormai troppo imprigionati?

Credo che con ogni bambino, specie se disabile, occorra instaurare una relazione perché questa è il presupposto imprescindibile di ogni apprendimento e di ogni azione educativa e costruire una relazione significativa è molto difficile in questo momento: stiamo facendo videomessaggi, mandando video-letture, fiabe illustrate, link dove trovare attività creative da fare con mamma e papà, ma la verità è che adesso tutti – insegnanti, genitori, educatori – ci troviamo disorientati e stiamo imparando a trasformarci ogni giorno, perciò ci sentiamo più vulnerabili.

Da sempre, penso che la Scuola prima che insegnare debba soprattutto educare, nel senso etimologico del termine del condurre fuori, del tirare fuori. Dovrebbe quindi sviluppare e affinare le attitudini e la sensibilità coniugando mente e cuore, volontà, fantasia, gusto estetico, capacità di pensiero e senso critico.

La relazione educativa per certi bambini funziona solo se si entra nei loro respiri, nei loro gesti, nei tentennamenti di quando non ricordano la poesia a memoria, nell'imbarazzo per aver detto una bugia al compagno, che poi verrà confessata alla Maestra, ma anche nei loro sguardi: negli occhi di quel bambino che si sente gratificato per aver svolto bene il compito o in quelli che provano un senso di sconfitta per aver preso un brutto voto. In questa comunicazione fatta di occhi bassi sui cellulari e di infinite parole regalate ad uno schermo si potrebbero creare fili di legami posticci che poi si sfaldano al confronto col reale e che rischiano di cadere nell'idealizzazione.

Mi chiedo se questa situazione non sia un modo per mettere alla prova anche noi stessi, la nostra capacità di trasformarci e di mantenerci resilienti di fronte a un presente che muta continuamente e che sfugge al nostro controllo.

Perciò credo che una delle chiavi non sia quella di riempire, di dare troppo, ma di provare un po' a svuotare, allentare un po' la presa e utilizzare il tempo come momento per raccogliere, ricostruire, ripartire, re-inventarsi ma in maniera nuova e creativa, cercando di tirare fuori tutte le risorse di questi bambini. Credo che la tecnologia dovrebbe essere utilizzata con maggiore criterio, non dovremmo far stare i bambini più di un'ora davanti a uno schermo, e dovremmo far capire loro che quel tempo che trascorreremo insieme è un tempo bello, un tempo per raccontare, per ascoltare, per sorridersi, per ascoltare il suono dei propri pensieri, silenziando un po' l'audio ed entrando in empatia.

Bisognerebbe lasciarli a guardare le montagne, i fiori, le stelle in cielo, ammirare la bellezza della natura, degli alberi e delle acque, forse solo allora cominceranno a pensare.

Partendo dal presupposto che la Scuola dovrebbe ridefinirsi anzitutto come comunità educante, luogo di ascolto e di riflessione e non solo come mera trasmissione del sapere, avulsa dal contesto sociale, credo che oggi più che mai bisogna lavorare sulla relazione, perché l'apprendimento non può prescindere dalla costruzione di relazioni significative. Pertanto, credo che ogni insegnante dovrebbe poter esserci per il proprio alunno non secondo una metodica istituzionale prefissata ma adattandosi ai suoi reali bisogni, secondo gli strumenti a lui più congeniali (telefono, WhatsApp, video, audio) e di conseguenza adattandosi anche ai bisogni di un gruppo-classe, secondo la libertà di ciascuno.

 Credo che questo tempo non dovrebbe essere solo impegnato e documentato da video-lezioni, riunioni collegiali on-line e firme sul registro. Perché quando la guerra sarà finita, non sarà di nuovi corsi di aggiornamento che avremo bisogno o di discutere delle piattaforme sempre più all'avanguardia che siamo stati in grado di utilizzare, ma della disposizione d'animo a raccontare nuove storie, insieme ai nostri bambini.

Le parole che danno voce a questa riflessione non sono solo quelle di un'insegnante o di un'educatrice o studentessa, ora più che mai scrivo come una figlia, una sorella, una zia, un'amica, una donna che come ogni altra lotta per il cambiamento e crede nella profonda trasformazione che questa emergenza ci offre, seppur imponendocelo, di operare.

Fiduciosa in un reale cambiamento vi abbraccio da lontano.


 
  

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