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La paradossale rinuncia alla socialità di chi con la socialità lavora

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Operatori della cooperativa Bessimo Cooperativa di Bessimo - Concesio (BS)
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In questi giorni c'è davvero poco tempo per le parole, ci si concentra sulle azioni e disposizioni da seguire per reagire all'emergenza dettata dal Coronavirus.

Tutti gli operatori della Cooperativa di Bessimo lavorano senza sosta per garantire agli utenti delle comunità terapeutiche e dei servizi di strada e di prossimità la cura di sempre, ma anche la rinnovata esigenza di tutela dai pericoli del contagio.

Ognuno torna a casa dalla propria famiglia e dai propri cari e, ogni giorno, torna sul posto di lavoro portando con sé la consapevolezza del proprio ruolo.

Abbiamo raccolto qualche testimonianza nella nostra rete di servizi per raccontare cosa sta succedendo e quale sia l'umore di utenti e operatori.

«Abbiamo capito, forse un po' tardi, che per limitare i contagi dobbiamo, ognuno di noi, considerarci come se fossimo potenziali veicoli di contagio per gli altri. Perciò dobbiamo ridurre al minimo indispensabile i rapporti sociali frontali e tenerli attraverso strumenti a distanza evitando, se non indispensabile, di vederci dal vivo e tutte quelle bellissime attività sociali che danno il senso di comunità e di appartenenza.

Per una realtà come la nostra che è definita "Cooperativa Sociale" e gestisce servizi di prossimità e di convivenza residenziale è difficile e per certi versi paradossale dover rinunciare alla socialità, rinunciare alle riunioni, non potersi vedere tra colleghi, non far uscire gli utenti, non poter girare tra le comunità o i servizi per ascoltare i problemi e confrontarsi sulle cose, ma in un momento così drammatico essere socialmente responsabili significa fare tutto il possibile perché i contagi rallentino cercando strumenti diversi dai consueti per mantenersi in relazione tra di noi».

«Quando è arrivata la notizia del virus, sembrava a tutti una esagerazione. Poi, col tempo, la cosa si è fatta più concreta. Si è cercato di non allarmare i ragazzi, ma a loro volta inizialmente non riuscivano a capire, c'erano tensioni e lamentele come se la colpa fosse degli educatori. A quel punto si è deciso di incontrarli ed essere più chiari. Abbiamo portato quotidiani in comunità e letto con loro articoli e decreti ministeriali. Da lì la gestione del quotidiano è cambiata: cineforum, golosità in cucina, sistemazione dell'orto, attività sportiva nel campetto interno, qualche film in più e qualche servizio di attualità, Skype per le telefonate ai parenti. Chiaramente la tensione non manca, la voglia di uscire, di incontrare i parenti, ma andiamo avanti giorno per giorno».

«Per noi educatori c'è paura, per noi, per i ragazzi, per i nostri cari, ma si continua con la presenza di sempre. Lo fai nonostante tutto, nonostante tu per primo abbia il timore che qualcosa possa andare storto, ma non molli perché non stai producendo "gommini di plastica", ma stai lavorando nella e per la Relazione a sostegno dei più fragili».

«Qui la situazione è tranquilla ma tutti hanno paura. C'è un ragazzo, uno dei tanti della Comunità, che ogni giorno esce per andare a lavorare e, quando rientra, si accomoda in uno spazio esterno dove non può entrare in contatto con nessuno, lo fa per evitare qualsiasi tipo di contagio. Gli altri ragazzi, che qui vivono con le loro famiglie, trascorrono giornate più o meno simili a quelle che si trascorrevano prima dell'avvento del virus, l'unica differenza è che spazi e tempi si dilatano: i gruppi terapeutici si svolgono garantendo debita distanza tra i partecipanti e limitando il numero di presenti che si alternano in più sessioni, le riunioni dello staff si svolgono nel cortile esterno, all'aria aperta e mantenendo almeno 2 metri l'uno dall'altro. Sì, è cambiato tutto. Inutile negarlo».

«I ragazzi hanno paura, in particolare chi soffre di patologie pregresse date, in alcuni casi, dall'utilizzo di sostanze: essere rinchiusi tutto il giorno all'interno delle mura della comunità crea nervosismo diffuso. Non si fanno più passeggiate, non si va a fare la spesa e, per chi aveva già la possibilità di muoversi liberamente sul territorio, la quarantena pesa parecchio. Per affrontare insieme il problema, abbiamo somministrato ai nostri utenti un questionario sugli effetti psico-sociali dell'epidemia e poi ne abbiamo parlato».

«Anche se abbiamo limitato al minimo le attività di gruppo che ci mettono a stretto contatto, abbiamo ancora i momenti del pranzo insieme (dilazionato nel tempo e mantenendo debita distanza l'uno dall'altro), troviamo il modo per scambiarci parole e impressioni: gli utenti percepiscono chiara la serie di restrizioni imposte. La sentono forte quando sanno che non possono incontrare i loro parenti e le persone a loro care, la sentono quando vorrebbero uscire per una passeggiata e non lo possono fare. Però qui scatta il loro senso di resilienza. Il tempo lo passano divertendosi e di cose da fare se ne inventano sempre di nuove, come il torneo di volley nel primo pomeriggio».

«La consapevolezza aiuta il processo di gruppo. Ci siamo confrontati proprio su questo tema: "Tornerà davvero tutto come prima?". Confronto e dialogo sono stati momenti di cura reciproca. A tamponare un po' i pensieri ci ha pensato anche la gestione elastica dei nostri turni che ci permette di lavorare distanti senza affollarci in ufficio dove lo spazio, oggettivamente, è ridotto: ci alterniamo e ci diamo il cambio, chi ha potuto ha iniziato a godere delle ferie residue e dei permessi da esaurire. La situazione più critica è quella di uno dei nostri utenti che, per patologie pregresse, ha dovuto trascorrere un periodo di 40 giorni in ospedale e ora è tornato in comunità. Facendo i conti del periodo di incubazione, l'abbiamo "scampata" tutti, ma questa persona, che ora sta molto meglio, deve comunque continuare ad andare in ospedale per visite e controlli accompagnata da un operatore. Certo, l'accompagnatore resta fuori dall'ospedale e aspetta sulle panchine all'esterno della struttura, ma ogni volta che poi rientra in comunità, accende dubbi, domande e perplessità. È così e non ci si può fare niente».

«Cerchiamo di garantire, seppur con riduzioni di attività, l'indispensabile per le persone che vivono in strada, per tossicodipendenti, alcolisti, persone in grave stato di fragilità, persone che in questi giorni difficili si rivolgono normalmente ai nostri servizi. Le équipe di Brescia, Bergamo, Cremona e Crema con mascherine e guanti distribuiscono come sempre il materiale di profilassi ma anche – e soprattutto – occhi sorridenti. Chiaramente l'accesso ai servizi è calato e le procedure sono diventate rigide: all'interno dei Drop-In accogliamo soltanto una persona per volta, i tempi per le docce sono veloci, i tempi di una colazione per chi vive in strada sono veloci, niente segretariato sociale se non quello urgente. Si vive un clima di lavoro strano ma nemmeno il coronavirus e l'assenza di finanziamenti da dicembre 2019 ci stanno fermando, non con pochi sacrifici».

«La comunità sta affrontando il coronavirus con le unghie e con i denti, anche se vivere la comunità con la mascherina e i guanti in lattice non è facile. Noi operatori cerchiamo di trasmettere una parvenza di normalità al gruppo, ma non ci sentiamo a nostro agio così bardati. Nonostante ciò abbiamo proposto alle mamme e ai bambini di fare un grande cartellone da appendere all'esterno della comunità con la scritta "Andrà tutto bene" e con dipinto un bell'arcobaleno; da operatori, ci auguriamo che questo disegno ci trasmetta forza e positività entrando dal cancello ad inizio turno e speriamo che dia anche ai nostri ragazzi la tenacia di resistere in questo momento di isolamento».



 
  

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